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Le sequoie (o reed wood) sono conifere dalla vita ultramillenaria, alte più di centro metri e, alla base, sono tanto larghe che per abbracciarle ci vogliono una decina di uomini.

Arrivati sul posto, mi venne spontaneo di fare il raffronto con l’altro mio ambiente di lavoro di due giorni prima, con la striscia infuocata di ghiaia e con la fila interminabile di compagni di sventura, piegati a schiena nuda e senza riparo, sotto il sole cocente.
Per cancellare quella visione, mi venne spontaneo di chiedere: “Carrarino, ora che si fa?” E lui, con atteggiamento molto bonario, in attesa che arrivassero gli altri due aiutanti mi spiegò l’arte e i segreti di quel lavoro. Poi aggiunse che da quel momento, mi avrebbe parlato solo in inglese poiché riteneva indispensabile per me l’uso corretto della lingua come strumento senza del quale non avrei potuto cavarmela da solo. Quando non capisci, mi disse, io te lo ripeterò, anche cento volte, ma guai a parlarti in italiano. E così fu.
Non ci volle molto a capire che il carrarino era il più bravo e il più intelligente di tutti gli altri che facevano quel lavoro. Le sequoie sono conifere dalla vita ultramillenaria alte più di cento metri e, alla base sono tanto larghe che per abbracciarle ci vogliono una decina di uomini. Per abbatterle gli altri impresari mettevano alla base della pianta un’enorme carica di tritolo senza curarsi che con quel sistema mandavano in frantumi un tratto di tronco di qualche metro e la pianta cadeva in modo incontrollato. Il carrarino, invece, con un rudimentale trapano a motore faceva alla base della pianta una serie di buchi disegnando per il verso giusto le labbra di una bocca. Poi riempiva i buchi con piccoli candelotti di tritolo che, quando esplodevano, facevano saltare via una piccola zeppa e la pianta cadeva dove voleva lui. In quella maniera, rispetto agli altri otteneva due vantaggi: risparmiava la perdita di una grossa quantità di legname e contemporaneamente riusciva a far cadere la pianta dove voleva lui per poi poterla trascinare più agevolmente nel fiume Sacramento.
Dopo tre o quattro mesi di lavoro il carrarino, che ormai chiamavo confidenzialmene Ghigo come lui voleva che facessi, mi aveva già dato per paga più soldi di quelli che io dovevo mandare ai miei genitori per rimborsare le spese del mio viaggio e, dopo un altro mesetto o due, decise che ormai il mestiere l’avevo imparato e potevo benissimo cavarmela da solo. Fece il conteggio di quanto gli dovevo per il trapano ma poi non volle nulla perché disse che ormai l’aveva pagato e non valeva più gran ché. Al momento di separarci mi ricordò che, quando avevo con me del denaro, dovevo viaggiare sempre armato tenendo la pistola ben evidente a portata di mano nel cintolone e non dovevo mai entrare in un “Saloon” se non volevo finire disperso in una botola come il suo amico portoghese e poi mi raccomandò di non licenziare i due aiutanti perché erano dei lavoratori capaci e onesti. Poi, dopo un abbraccio affettuoso come si può fare tra padre e figlio, se n’andò in Italia e non ne seppi più niente.
Ancora una volta mi venne da piangere ma questa volta erano lacrime di felicità per aver ricevuto tanto bene e quando meno me l’aspettavo, da un uomo apparentemente rozzo e di poche parole, ma dal cuore grande come una casa e di una generosità da non potersi descrivere.

La conquista della Libertà nella foresta di Sequoie.
Quel lavoro era una manna. Già guadagnavo bene facendolo come mi era stato insegnato ma io lo migliorai ancora e feci soldi a palate. Per trasportare gli enormi tronchi dalla foresta al porto di S. Francisco, tutti gli impresari compreso Ghigo, li afferravano con delle gru prese a nolo e li scaraventavano nel fiume Sacramento dopo averli marchiati a fuoco e li facevano trasportare liberamente dalla corrente per una sessantina di chilometri per poi andarli a ripescare in mare dopo qualche giorno. Non c’erano controlli adatti e molti tronchi andavano dispersi o forse rubati e io rimediai in un modo semplice. Comprai un vaporetto rimorchiatore e poi incatenavo i tronchi come i vagoni di un treno e in questo modo li rimorchiavo dritti dritti facendoli accostare uno alla volta al bastimento del compratore evitando così la laboriosa e costosa opera di ripescaggio e fissando con puntualità il giorno d’arrivo e la quantità di tronchi da consegnare ad ogni cliente. Non mi copiò mai nessuno e non riesco a capire il perché. Con questo sistema tutti i compratori di sequoie o Reed Wood, come ormai le sapevo chiamare, si rivolgevano a me ed io dovetti aumentare il numero degli aiutanti per riuscire ad abbattere un maggior numero di sequoie anche perché sapevo che quel lavoro si sarebbe esaurito appena fosse finita la strada.
Al sopraggiungere di quella data mi dispiacque enormemente anche se ero ben preparato. Liquidai gli aiutanti e dopo esserci salutati da grandi amici, andai in banca a controllare la cifra che ero riuscito a mettere insieme e quando la vidi lì scritta sul foglio col mi’ nome, rimasi strabiliato e incredulo perché non riuscivo a capire come tanti piccoli mucchietti fossero riusciti a fare un mucchio così grosso! Mi prese il tremito e, uscito fuori, mi misi a passeggiare a lunghi passi tra le bancarelle del porto dove il profumo degli aranci, dei limoni e delle mele, mi aiutava a respirare a pieni polmoni per assaporare la gioia di aver conquistato finalmente anch’io la libertà... quella libertà che l’America, come chiunque altro, assicura sì ma a chi ha i soldi per pagarsela!
Quella notte non chiusi occhio al pensiero di cosa avrei dovuto fare per cercare un nuovo lavoro. Non conoscevo nessuno, non sapevo a chi rivolgermi per un consiglio e sapevo benissimo che nel mondo un secondo Ghigo non esiste. Questo pensiero mi fece venire in mente che Ghigo mi aveva dato una seconda ricchezza insegnandomi la lingua e perciò ora, dopo quasi cinque anni dal mio arrivo in America io, per cercare un lavoro potevo benissimo rivolgermi a tutti con disinvoltura da me solo senza cognati e senza caporali. Mi venne un’idea che mi era trapelata nella mente la mattina prima tra i mille profumi del mercato e ritornato da quelle parti domandai a un grossista. Da dove viene questa verdura? Rispose: “Dalle isole... da Oakland”. E così di domanda in domanda seppi che si potevano avere in concessione dal Demanio degli appezzamenti di terreno o addirittura delle isole. Il resto venne da sé e in pochi giorni riuscii ad ottenere in concessione demaniale per novantanove anni, la proprietà di un’isola grande una ventina di ettari, sistemata nelle vicinanze di Oakland, cioè dalla parte opposta della baia ma proprio di fronte al porto di San Francisco.

La Fattoria: un Ranch nelle isole di Oakland.
     Quando ci arrivai col mio rimorchiatore, che ribattezzai “Gasolino” e mi trovai lì solo, davanti ad un’immensa distesa di terreno pianeggiante a pelo d’acqua, più che essere felice mi sentii sperso ma poi mi feci d’animo e cominciai a comprare tutto l’occorrente per impiantarci una fattoria. Cominciai con dodici cavalli, due aratri e qualche baracca dove dormire. Inizialmente avevo una decina di operai che in due anni passarono a ottanta. I cavalli passarono a una venticinquina ed in più avevo molte vacche per il latte e per la carne da macello per nostro uso; e poi maiali, polli, oche, tacchini e due chiattoni dei quali uno, lo rimorchiavo al mercato tutte le mattine carico di verdure fresche e l’altro lo lasciavo in fattoria dove me lo preperavano carico per la mattina successiva.
     I miei operai erano: portoghesi, francesi, spagnoli norvegesi, giapponesi; qualche tedesco e anche indios ma non ci avevo nemmeno un italiano, così finii quasi col dimenticare la mia lingua materna.
     Una mattina mi intristii particolarmente poiché mi resi conto che nella notte avevo parlato in inglese perfino nel sogno. Allora, per consolarmi mi misi a ricordare i miei compagni d’infanzia, quando con loro andavo a fare gli scivolini sul ghiaccio nel fossone della ferrovia tra Fagnano e Montuolo. Poi mi venne alla mente il Puccinelli di Meassin’ che, in attesa di essere accettato in Seminario per farsi prete, non voleva più picchià i compagni di scuola nemmeno quando lo canzonavano così glieli scazzottavo io e lui, all’ora di merenda, mi ricompensava dandomi quattro o cinque olive indolcite.

Mi venne un’idea che mi era trapelata nella mente la mattina prima tra i mille profumi del mercato…

Il mercato di frutta e verdure lungo il vecchio porto di San Francisco è ancora come lo lasciò mio padre. Sia gli edifici che il pavimento sono di reed wood.

Veduta del vecchio porto con pavimentazione in reed wood.

Ancora veduta del vecchio porto con edifici ed attrezzature in reed wood. Attualmente è un parco protetto e ci troneggiano le foche.

Ma il ricordo che più mi consolava era quello di quando a tredici anni andavo a lavorare alla Birreria Landucci in Piazza della Pupporona. Il Landucci mi voleva bene e spesso mi mandava col barroccino a consegnare la birra alle varie Caffetterie della città ed io, percorrendo scalzo le strade lastricate in pietra, mi sentivo scottare i piedi lungo i tratti assolati e provavo un grande refrigerio quando li posavo sulle pietre lisce e fresche lungo i tratti ombreggiati. Per le vie di Lucca spesso incontravo gente conosciuta che mi salutava e con la quale scambiavo anche qualche parola, mentre qui non ricevevo mai un saluto da nessuno. Com’è difficile abituarsi a vivere tra gente quasi del tutto sconosciuta e senza incontrare mai un italiano, mai una faccia amica o una qualunque altra persona con la quale poter scambiare un pensiero!
     Una volta che avevo bisogno di assumere un cuoco si presentò finalmente un italiano ma con mio grande stupore non riuscii a capirlo e gli dovetti parlare in inglese. Era di un paesetto delle montagne del napoletano e in quel lavoro non ci resistette nemmeno un mese perché era sporco e non sapeva cucinare. Gli operai si ribellarono ed io fui costretto a licenziarlo, con gran dispiacere ed anche con grande vergogna.
     Dopo questo fatto non volli rischiare con un altro cuoco e mi ci misi io a sostituirlo. In poco tempo imparai così bene che gli operai m’incoraggiarono a continuare e così, per diversi anni, feci anche il cuoco. Questo doppio lavoro mi costava gran sacrificio ma contribuì molto a rafforzare il rapporto di amicizia con tutti i miei operai.
     Per lavare i panni personali ognuno s’ingegnava a modo suo e io li mettevo in un sacco di rete a maglie robuste che poi agganciavo ad un fianco del “gasolino” e dopo aver fatto il viaggio di andata e ritorno dal mercato delle verdure, li toglievo dal sacco ben puliti. Forse a seguito del nuovo clima di amicizia, molti operai mi chiesero se potevo fare il “lavandaio” anche per loro. Io non volevo dare ai miei dipendenti molta confidenza ma, quando mi era possibile, cercavo sempre di accontentarli.
     Un giorno un gruppo di loro si avvicinò con l’atteggiamento di chi deve chiedere un grosso favore ed uno mi disse: “Mister Stagi, lo sai che domani è Natale?” Istintivamente risposi di sì, ma in realtà sapevo bene che da quando ero partito da casa, cioè da oltre sei anni, per me non esisteva più né Natale né Pasqua, e anche tutte le altre Domeniche o feste, passavano per me come giorni normali e nemmeno me ne rendevo conto. Il solito operaio, che ovviamente parlava a nome di tutti, aggiunse: “Ci porteresti col “Gasolino” alla Messa nella Chiesa della Missione in San Francisco?” Risposi ancora di sì e mi dimostrai soddisfatto. La Missione era l’unica chiesa di San Francisco e si trovava al centro della città in Via Cristoforo Colombo. Era la prima volta che entravo in una chiesa americana e il suono dell’organo e tutto ciò che mi vedevo intorno, mi procurava grandi emozioni. Quando poi il prete intonò il “Gloria in excelsis Deo”, tale e quale come quello che cantavo da ragazzo a Fagnano, mi venne fatto di esclamare: “Io lai, sente loro ‘ui...parlin’ la mi’ lingua!” E mi commossi. Poi mi venne fatto di chiudere gli occhi e così mi ritrovai di colpo nella chiesa del mio paese, a Fagnan’ basso e subito risentii la voce der zi’ Grillo; di Rigo; del Sarto; di Davin’; di Pellegro; der Puli e di quel grasson’ di Tani, che cantavano a squarciagola nelle prime panche e poi la voce bassa e stentata di quel gruppetto di vecchi, che stavano a sede’ negli scranni del coro dietro l’altare.

Finalmente un lucchese!
     Terminata la Messa, mentre scendevo la gradinata della chiesa, il mio sguardo fu attratto da un gruppo di persone che in un angolo del piazzale agitavano un cartello con la scritta: “Siamo italiani in cerca di lavoro”. Mi avvicinai e chiesi: “C’è qualche toscano tra voi?” Si fece avanti un giovanottone e disse sfoderando un bel sorriso: “Io”.- “Da dove vieni, gli chiesi”. E lui pronto: “Da Lucca”. Dopo un istante di incredulità gli chiesi ancora: “Da che parte di Lucca?”. E lui: “Da San Concordio...dal Roton’ di San Concordio”. Ci abbracciammo e venne a lavorare da me. Arrivati in Fattoria lo presentai anche agli altri operai e per tutto il giorno mi aiutò a cuocere dolci per tutti con grande gioia e finalmente, dopo tanti anni, festeggiai il Natale come avevo visto fare da sempre in casa mia. Prima di allora cioè, quando ero solo e senza l’ombra di un amico, come potevo assaporare la festa?

Ci porteresti col “gasolino” alla Messa nella Chiesa della Missione a San Francisco?

La Missione era l’unica Chiesa di San Francisco e si trovava al centro della città in via Cristoforo Colombo.

     Mi sembrava di sognare all’idea di aver trovato uno con cui poter condividere i momenti di gioia e pensai che se l’avessi avuto al mio fianco qualche anno prima, certamente mi sarebbe stato ancor più utile per dividere con lui anche i momenti di sconforto. Era bravo il Lucchesi Livio del Roton’ e in breve tempo diventò il mio braccio destro. Dopo qualche mese, resomi conto che in fattoria l’avevo perso di vista per qualche ora gli chiesi: “Dove sei stato?”: E lui mi rispose prontamente in inglese maccherònico:- ”Son’ ito cor gasolino a portà gli sparagrassi e l’articiocchi alla marchetta.” - “Come? Gli dissi, in così poco tempo sei stato capace di andare a portare gli asparagi e i carciofi al mercato?” Poi mi accorsi anche della seconda sua bravura e aggiunsi: ”Porca miseria Roton’, come sei stato bravo; fra un po’ parli l’inglese meglio di me!”
     Ora avevo veramente di che essere soddisfatto. Il lavoro della fattoria andava benone; gli operai erano contenti, lavoravano da me con soddisfazione e da molto tempo nessuno chiedeva più di andarsene; i miei risparmi aumentavano discretamente ed avevo già raggiunto una cifra più che sufficiente per costruirmi la casa in Italia ed in più avevo un operaio italiano bravo e onesto tanto da potergli affidare le mansioni più delicate come mandarlo ad incassare i crediti o versare il mio denaro in banca.
     Forse sarà stato per questa serenità finalmente conquistata che cominciai a sentire sempre più insistente un tarlo che mi rodeva in fondo al cuore: la fanciulla di Meati! Quella visione non l’avevo mai dimenticata ma, mentre fino a qualche tempo prima mi si presentava per consolarmi nei momenti di massimo sconforto, ora aveva invaso i miei sogni e non mi dava tregua. Cominciai anche a pensare che ormai aveva certamente raggiunto l’età giusta per farsi una famiglia e quindi sentivo sempre più reale il pericolo di perderla. Questa idea mi ossessionava perché era fin’ troppo evidente che una ragazza da marito e per giunta così bella, non poteva star lì ad aspettare uno del quale non sapeva nulla e che forse non aveva nemmeno visto.

Il terremoto di San Francisco
     Dopo poco tempo, nel 1906, quando stavo pensando sempre più concretamente di fare una scappata in Italia, San Francisco fu colpita da uno spaventoso terremoto. La maggior parte delle case furono distrutte sia per i crolli, sia per gli incendi che divamparono subito per lo schianto delle tubature del gas. Anche la mia fattoria fu distrutta ma non da crolli o incendio: fu invasa dalle acque del mare che, agitate dal terremoto, rigonfiarono e travolsero gli argini dell’isola. Noi ci salvammo salendo sui tetti delle nostre baracche e gli operai mi aiutarono a salvare qualche mucca e qualche cavallo. Tutto il resto e, ovviamente il raccolto, andò perso. Lo sgomento fu grave, e il Lucchesi mi fu veramente di conforto come un fratello. Dopo qualche giorno, quando le acque cominciarono a defluire, risistemammo le nostre baracche e gli argini e in men’ che non si dica, tutti uniti come in famiglia, riprendemmo a coltivare le verdure.
     Al disastro del terremoto fece seguito una crisi economica ugualmente spaventosa e anch’io cominciai a tremare perché si era sparsa la voce che le Banche stavano per fallire e avevano bloccato i depositi. La gente si accalcava agli sportelli per prelevare e anch’io provai ad avvicinarmi ma non mi fu possibile perché c’era troppa ressa. Dopo qualche ora di attesa e di penosa incertezza sul come sarebbe andata a finire, sentii un frastuono di trombe. Le suonavano uomini a cavallo che precedevano uno strano corteo di poliziotti, pure a cavallo, i quali a loro volta scortavano delle carrette trainate da altri cavalli bardati a festa e ornati da striscioni con delle scritte a grossi caratteri.
     Si trattava della banca del “Fugazi” quella dove io tenevo tutti i miei risparmi, la quale, per assicurare i propri clienti che le voci del suo fallimento erano infondate, aveva deciso di far uscire per le strade della città quello strano corteo di carrette piene di lingotti d’oro e di dollari in oro zecchino, in modo che tutti potessero vedere e tranquillizzarsi. A quella visione anch’io tirai un grosso respiro di sollievo e tornato in Fattoria, mi misi al forno a cuocere dolci per tutti, senza però specificare il motivo.


Quando il prete intonò il “Gloria in Excelsis Deo” come quello che cantavo da ragazzo a Fagnano mi venne fatto di esclamare: “Iolai, sente loro ‘ui…parlin’la mi’ lingua!”




Terminata la Messa, mentre scendevo la gradinata della Chiesa, il mio sguardo fu attratto da un gruppo di persone…che agitavano un cartello con la scritta: “Siamo italiani in cerca di lavoro”.

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