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Il verde

divenne

sempre più raro

e cominciò

a comparire

una zona

inizialmente

collinare

e stepposa…

…e poi sempre più montagnosa e arida.

     Era crollata solo una delle quattro arcate e la sua ricostruzione stava per essere ultimata. Nel suo insieme il ponte non mostrava un aspetto massiccio ma piuttosto esile ed io non riuscivo a convincermi come potesse sostenere il peso di un treno. Con l’aiuto dell’interprete chiesi: “L’acqua è profonda?” -”Sì, mi rispose un operaio, tanto da ingoiare il treno che c’è cascato e forse ne potrebbe ingoiare anche qualche altro”. Preoccupato, più che incuriosito, chiesi ancora: “Morti ce ne sono stati?” Mi rispose in fretta allontanandosi: “Certamente sì, ma per sapere quanti bisognerebbe ripescarli”...
     Rimettendo in ordine queste notizie, si veniva a sapere: che era crollato il ponte; che il treno era precipitato nell’acqua sottostante; che c’erano stati certamente diversi morti e che nessuno si preoccupava di recuperarli anche solo per sapere chi fossero. O mamma! Esclamai, e se succedesse a me chi mai verrebbe a conoscenza della mia fine?
     Dopo qualche altro giorno si sparse la notizia che il ponte era pronto. Prima fecero passare solo il treno e noi restammo tutti sulla riva ad osservare con grande trepidazione. Per la prima volta potei vedere quel treno in tutta la sua lunghezza e mi resi conto che aveva una locomotiva anche in fondo. Lo facevano avanzare a passo di lumaca ed anche quando vidi che i primi vagoni erano riusciti a transitare senza provocare ulteriori crolli, non riuscii a rallegrarmi perché pensai che quelli erano stati alleggeriti del nostro peso e perciò ci si doveva preoccupare per gli ultimi che erano stracarichi di merce e quindi molto più pesanti. Per nostra fortuna andò tutto bene e il viaggio riprese.
     Per un’altra settimana, stessa monotonia e stesso trantran ma poi, a poco a poco, il paesaggio cominciò a cambiare. Il verde divenne sempre più raro e cominciò a comparire una zona inizialmente collinare e stepposa e poi sempre più montagnosa e arida. Il treno s’infilava in ampi canaloni tra pareti rocciose e per ore e ore non si vedeva una pianta o un filo d’erba. L’unica cosa bella era il loro colore rossastro che alla luce del tramonto lasciava incantati trasportandoci in un mondo di fiaba. Spesso, giù nella parte più bassa, si vedeva qualche stradina che si stendeva come un nastro per chilometri e chilometri e lungo il percorso spesso si vedevano transitare carovane di carrozze coperte di teli chiari col tetto a volta, trainate da diversi cavalli e scortate da molte persone anch’esse a cavallo.
     Ad un certo momento, dopo qualche chilometro percorso a passo d’uomo, il treno si fermò proprio su di un dirupo e non se ne capiva la ragione. Stranamente non lessi preoccupazione sul volto dei compagni di viaggio e poi uno di questi, gesticolando più che con le parole, mi spiegò che la salita era troppo ripida e che il treno sarebbe rimasto fermo solo un po’ per consentire di aumentare il fuoco nella caldaia e di conseguenza la pressione del vapore. Era vero e io avevo capito bene. Infatti dopo un po’ il treno riprese il suo cammino marciando per ore e ore a passo d’uomo. Poi la velocità tornò ad essere normale. Dopo qualche ora cominciò ad accelerare vertiginosamente come non si era mai visto e rimase in quell’andazzo per molto tempo seminando fra di noi un po’ di panico perché eravamo in discesa fra dirupi paurosi e a qualcuno venne il dubbio che si fossero rotti i freni. Il ritorno alla normalità ci consentì di rasserenarci un po’, prima di prendere sonno e a notte avanzata, ognuno si raggomitolò nel suo cantuccio, come meglio poteva, in attesa di un altro giorno.
     Ed il giorno successivo arrivò puntuale, con la sua solita monotonia e con le solite novità. Appena svegli e fatta la colazione che, come gli altri pasti ci veniva servita in recipienti cocciati e anneriti da non capire di che metallo fossero, il treno rallentò di nuovo per una difficile salita ma non si fermò. Ad un tratto sentii uno che gridava facendo dei gesti con la mano ma non riuscendo a capire cosa volesse dire, guardai gli altri e vidi che tutti indicavano giù in basso, in fondo alla scarpata. C’erano diversi vagoni e una locomotiva disseminati un po’ ovunque, precipitati qualche tempo prima forse per un deragliamento. Poi, dal diverso rumore del treno, mi resi conto che si stava passando sopra un ponte in legno e quando la ferrovia imboccò l’andamento a curva, vidi chiaramente molti tronchi d’albero affastellati quattro a quattro, disseminati fra i vagoni precipitati lungo il burrone. A quel punto non ci fu bisogno dell’interprete per capire che si trattava di un viadotto sopraelevato, crollato come il precedente ponte sul fiume e pensai che qui i morti forse avevano avuto almeno la fortuna di essere stati recuperati.

Il treno s’infilava in ampi canaloni tra pareti rocciose…

Spesso, giù nella parte più bassa, si vedeva qualche stradina che si stendeva come un nastro per chilometri e chilometri…

     Molti anni più tardi, quando ripercorsi questa linea ferroviaria per il mio secondo viaggio a San Francisco, seppi che quello sconfinato paesaggio dall’affascinante colore rossastro che avevamo attraversato per un tratto di circa duemila chilometri, è il famoso Colorado che per secoli e secoli ha inghiottito nei suoi Grand Canyon, migliaia e migliaia di pionieri che morivano di sete e di stenti galoppando col loro cavallo verso il Far West nella speranza, come me, di trovare un lavoro nella lontana e sconosciuta California.

Finalmente l’arrivo nella “Terra Promessa”
     Quella terra, che mi era stata descritta tante volte come un paradiso terrestre, l’avevo ormai a portata di mano ed infatti, dopo aver attraversato per un paio di giorni, zone nuovamente verdeggianti, ecco che apparve ai nostri occhi un grandissimo lago. Molti pronunciavano esclamazioni di gioia e qualcuno mi spiegò che non si trattava di un “lago” ma di una “baia”: La Baia di S: Francisco. Eravamo arrivati! Improvvisamente il treno cominciò ad emettere fischi ad intermittenza, erano fischi di saluto e di giubilo e nuovamente mi vennero le lacrime agli occhi.
     Il treno si affacciò sulla Baia giungendo dalla parte alta e lo spettacolo che si presentò è indescrivibile: il mare s’intravedeva attraverso una sottile cortina di nebbia e sembrava un’immenso lago perché le ridenti e verdeggianti colline lo avvolgono a ferro di cavallo fino a perdita d’occhio. La città di San Francisco troneggiava biancheggiante là in fondo a sinistra, adagiata nel punto migliore. Trovai subito una forte somiglianza col paesaggio verdeggiante del mio paese e della mia città e la gioia istintiva che provai mi fece dimenticare di colpo tutti i sacrifici di quel lungo viaggio. Fra poche ore avrei potuto finalmente abbracciare una persona amica, il marito di una mia sorella al quale mi avevano indirizzato i miei genitori perché mi trovasse un lavoro, e a lui avrei potuto manifestare tutta la mia gioia per aver trovato finalmente una seconda Patria.

Il tanto sospirato lavoro
     L’indirizzo del mio cognato era facile da rintracciare: una via dal nome sconosciuto ma nelle vicinanze del porto. Lo trovai in casa e sembrava che mi aspettasse ma l’accoglienza non fu calorosa come io mi aspettavo e così non riuscii a dirgli nulla dei miei sentimenti più intimi. Mi chiese appena notizie dei suoi e subito mi parlò del mio lavoro. Si dilungò molto per assicurarmi che me ne aveva trovato uno buono ma che, per il forte ritardo, ormai quello era stato assegnato ad un suo amico e per me ce n’era subito pronto un altro che molti avevano scartato, il manovale per la costruzione della linea ferroviaria di Santa Fe’. In attesa di meglio lo accettai anche se la paga era misera e avevo calcolato che per restituire i soldi del viaggio mi ci sarebbero voluti quasi due anni!
     Quante sofferenze in quel lavoro! Dipendevo dai Gesuiti ma di preti non ne vidi mai uno. Il mio superiore era un caporale spagnolo che di italiano conosceva una sola parola, anzi due: ”Più svelto”: Me le gridava continuamente nell’orecchio qualunque fosse il mio ritmo di lavoro e poi mi accorsi che conosceva questa espressione in tante lingue e la gridava a tutti. Con un grosso badile dovevo spargere la ghiaia per il piano della ferrovia: Al mio paese, io l’avevo già fatto quel lavoro quando, all’età di dodici anni, andavo a inghiaià la strada a “Meo” nel tratto della Via de’ Gatti che va da Fagnano a S. Donato, ma una fatica così non l’avevo mai provata e in pochi giorni le mani mi si ricopersero prima di bolle e poi di piaghe sanguinanti. Non potevo ricevere né conforto né aiuto da nessuno e mi arrangiai da me con delle bende improvvisate, mentre anche in quelle condizioni il caporale continuava a gridare: “Più svelto...più svelto!” Anche qui, l’unico modo per risparmiare era quello di adattarsi nel mangiare e nel dormire quindi: pane e latte a colazione; pane e formaggio a pranzo e a cena, con poche varianti. L’alloggio era sistemato in baracche improvvisate lungo il tracciato della ferrovia.
     Per ordine di mio padre, che l’aveva scritto anche nella lettera, tutti i risparmi li davo al mio cognato che doveva mandarli in Italia per rimborsare il debito del viaggio.

Il treno si affacciò alla Baia giungendo dalla parte alta… …il mare sembrava un immenso lago…

La città di San Francisco troneggiava biancheggiante là infondo a sinistra, adagiata nel punto migliore.

Il tradimento del cognato.
     Dopo circa un anno e mezzo ricevetti posta dal mio papà. Apersi la busta con le mani tremanti e col cuore colmo di gioia ma ben presto una doccia fredda mi fece raggelare. Si meravigliava e si lamentava di me perché, contrariamente alle tante promesse che gli avevo fatto alla mia partenza, non aveva più avuto mie notizie e non aveva ricevuto nemmeno una lira per il rimborso del debito. Non riuscivo a rendermi conto di cosa potesse essere accaduto e quando corsi da mio cognato per portargli la paga del mese, seppi che lui se li era trattenuti per sue necessità e poi aggiunse, senza mezzi termini che non me li avrebbe mai restituiti. Voleva, a forza anche la paga dell’ultimo mese che avevo ancora con me, e quando allungò le mani per strapparmela da dosso, andò a finire in una scazzottata: Appena si rese conto che ero più forte di lui, mi chiese di smettere e poi mi disse con voce rantolante: “Sappi che io in Italia non ci torno più e la tua sorella non mi vedrà mai più. Già da tempo mi son’ trovato qui un’altra donna e di voi non ne voglio più sapere”. “Farabutto, gli gridai, e pensi che possa finire così? Restituiscimi almeno i miei soldi”. Mi rispose di sì, ma poi scappò e da quel momento non lo vidi più e di lui non seppero più nulla nemmeno sua moglie e i suoi genitori. Secondo le notizie che riuscii a racimolare da alcuni che lo conoscevano, aveva trovato una donna canadese e quindi pensai che fosse fuggito con lei in Canada.

     Ancora una volta scoppiai a piangere amaramente chiuso in quel tugurio di casa che però offriva il vantaggio di darmi un rifugio sicuro ad un fitto modesto. Non sapevo che fare, se ritornare al duro lavoro della ferrovia o dove andare a battere la testa. Intanto nei dintorni di questo tugurio si era sparsa la voce della scazzottata fra due italiani e qualcuno si commosse nel sentire la triste storia di un giovane ingannato e tradito a quel modo dal suo cognato. Io non so come avvenne, ma il giorno successivo sentii bussare alla porta.

Apparve un Angelo: un vero Amico.
     Prima di aprire mi rimboccai le maniche della camicia pensando di dover riprendere la scazzottata col mio cognato ed invece si presentò un uomo di mezz’età dall’atteggiamento bonario. “Sono un italiano, mi disse, e un amico mi ha raccontato qualcosa di tuo cognato. Lo conoscevo e anche se non lo stimavo molto, mai avrei pensato che arrivasse a tanto. Se vuoi, ti posso aiutare”. Cercai di interromperlo per dirgli che non potevo più fidarmi di nessuno, ma lui continuò: “Sono qui da molti anni ed ora desidero rientrare in Italia. La mia famiglia abita sui monti di Carrara, siamo tutti cavatori di marmo e se vuoi io ti insegno un mestiere che non è pericoloso come sembra. Se vuoi t’insegno a fare le mine e poi ti lascio il mio lavoro che ti consentirà di recuperare in poco tempo il guadagno perduto. Pensaci un po’ e, se te la senti, vieni con me subito da domani”
     Mi sembrava sincero e quel dire continuamente “Se vuoi,... se sei d’accordo,...se ti piace” m’incoraggiava ma non mi conviceva tanto perché, in cambio di questa manna piovuta dal cielo, non mi aveva chiesto soldi. Mi feci coraggio e gli dissi: “Ma di quest’offerta di lavoro quanto vuoi? Perché, come forse saprai, io non ho in tasca il biccio d’un quattrino...” Al che lui mi confermò che non voleva nulla perché, come mi spiegò con più precisione, si trattava di lavoro offerto non da lui ma dalle Autorità locali che, dovendo fare la strada per il Canada, mettevano all’asta l’abbattimento di un certo numero di piante enormi. le Sequoie, le quali non potevano essere tagliate con la sega ma si doveva usare la dinamite. Il guadagno veniva fuori nel saper usare la dinamite e nel saper ricavare il più possibile dalla vendita del legname. Poi aggiunse con voce paterna: “Via, fidati di me e, se mi dici di sì, domattina ti vengo a prendere”. A quel punto come potevo dire di no?... ma ero talmente confuso che non riuscii ad aprir’ bocca e non seppi far altro che abbracciarlo.

     Il mattino successivo partimmo prima dell’alba per la foresta di sequoie che si trova al Nord di S. Francisco, lungo il fiume Sacramento e m’imbattei in un paesaggio incantato. Dopo tutte le batoste che avevo subìto, non riuscivo più a gioire di nulla, ma le sollecitazioni amichevoli dell’Angelo carrarino e lo scenario da fiaba nel quale inaspettatamente mi trovai immerso, mi riportarono un po’ di pace nel cuore e, piano piano, cominciai a gustare quella sinfonia della natura fatta di immagini surreali, di colori suggestivi, di suoni armoniosi formati dal canto di uccelli esotici mai visti prima di allora e di fresco tepore esaltato dal gorgoglio di ruscelli che scendevano chiacchierando tranquillamente per andarsi poi ad azzittire nel sottostante fiume Sacramento.

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