Return to page 1

                       IL MIO PAPÀ

Il papà amico

     Mio padre era il più ricco fra i contadini della corte dove abitava. Si deduceva facilmente anche dalla quantità dei suoi raccolti, che era sempre di gran lunga superiore a quella degli altri contadini e ciò risultava ancor più evidente per il raccolto del granturco.
     Nell’Ottobre, appena finita la festa dello sfoglio, legava le pannocchie di granturco in grossi mazzi che poi appendeva a tralci di vitalbe che si procurava andandole a fare nel bosco e che disponeva poi in lunghe filze lungo la facciata della casa e della capanna. A volte era costretto addirittura ad invadere anche una parte di facciata della casa di suo fratello Aniceto, l’unica che altrimenti sarebbe rimasta libera perché Aniceto, Capo del reparto falegnameria alla Manifattura Tabacchi di Lucca, non coltivava la terra e quindi non aveva né fagioli né granturco da appendere vistosamente alla facciata di casa.
     Spesso mio padre quando entrava in corte, si soffermava da lontano a godersi lo spettacolo e una volta, chiamandomi col mio nomignolo, mi disse: “Guarda Poldo, un c’è bisogno di conta’ le filze di granturco per sape’ che se n’è raccolto più noi da soli che tutti gli altri messi assieme!” Poi aggiunse: “Ora va sgranato... ma non mi preoccupo perché quella è una festa ancor più bella dello sfoglio!” Ed aveva perfettamente ragione poiché, quel lavoro che di per sé sarebbe stato noiosissimo, con la sua regia diventava per noi una festa molto più bella e più attesa della vendemmia o dello sfoglio. Sì, perché questa era una festa intima di famiglia, dove il papà era lì fra noi e tutto per noi, per ore e ore, per giorni e giorni mentre alla festa per la vendemmia o per lo sfoglio, non ce lo potevamo godere appieno perché vi partecipava anche tanta altra gente. Era diversa anche da quando si lavorava nei campi perché qui non eravamo distanziati tra le polche di grano o tra i solchi di granturco o di fagioli lunghi fino a cento metri o addirittura dispersi in enormi campi di fieno di cinque o seimila metri quadrati. Qui eravamo gomito a gomito, seduti comodamente in una cameretta che per l’occasione diventava il granaio e la cosa più bella consisteva nel fatto che qui potevamo parlare tranquilli fra noi finché si voleva.
     Come gli altri lavori, anche questo si svolgeva con un suo rito preciso ed immutabile. Al momento che mio padre riteneva giusto, cioè verso la metà di Novembre allorché il granturco era ben seccato, grazie al vento più che per il pallido sole della stagione autunnale, sul più bello della cena il papà ci diceva: “Ragazzi, preparatevi perché domani si comincia a sgranà”. Quel “Preparatevi” voleva dire: “D’ora in poi affrettatevi ogni giorno a fare i compiti di scuola perché, fin verso Natale sarete impegnati in questo lavoro”. Ma per noi lo sgranare il granturco col papà non era un lavoro e a quell’annuncio, facevamo salti di gioia.
     Il giorno successivo, subito dopo pranzo, mentre sbrigavamo il compito di scuola, mio padre appoggiava alla facciata di casa una lunga scala a pioli che si era costruito da sé segando in due per lungo una pertica ben selezionata tra le più robuste e diritte. Piazzava al punto giusto il corbellone e, dall’alto della scala, staccava uno ad uno i grossi mazzi di granturco e di lassù li lasciava cadere centrando il corbellone con una mira superiore a quella di un consumato tiratore al piattello. Di questa sua bravura lui era pienamente consapevole ed accompagnava ogni successo esclamando: ”Lah, centrato!”
     Appena aveva empìto il pesante corbellone, con una mano ne afferrava il bordo superiore; l’altra la infilava dal sotto e con lo scatto di una cavalletta, se lo caricava in spalla. Era alto mio padre, e per passare dalla porta di casa con quel carico in spalla, doveva chinarsi quasi in ginocchio e lo faceva con una mossa sbilenca che ripeteva sempre con grande disinvoltura.
     Ma la fatica più grossa arrivava ora poiché, con quel peso sulle spalle, doveva salire quattro rampe di scale prima di raggiungere il granaio, che ogni anno veniva ricavato liberando provvisoriamente una cameretta che chiamavamo la “stanzina”.

…tra i solchi di granturco o di fagioli lunghi fino a cento metri...

(Il campo di Gustino che chiamavamo “il campo di patata”)

La “luce”

Io m’ariordo
di ‘uand’ arivò la luce ‘ndelle ‘ase!…
Prima la misse
chi ci aveva ‘r sordo manesco

e quell’artri dicevino:
“Se quando vienghin’ a riscuote

si puole pagà anco ‘on l’ova,
allora la metto anch’io!”
E Gustavo di Poderi mi disse:
“O bimbin’,
tu pa’ la missa la luce?
“Sì, dissi”. E lu’:
“Allora…
‘uando vien’ il luciaro…
dinni ‘n po’ se le lampadine accese
consumin’ anco di giorno…
E io:
“Sì!”
Ma po’,
quando viense l’Orselli di Meati,
un ni dissi nulla
per un passà da citrullo!

     Noi arrivavamo quando in un angolo della stanzina troneggiava già un bel mucchio di pannocchie. Allora il papà si riposava unendosi a noi e subito c’era la distribuzione dei posti e degli incarichi. A ripensarci poi da adulto, io non sono mai riuscito a capire come faceva a trovare tante differenziazioni in un lavoro di per sé così monotono ed appiattito, ma per lui le differenze c’erano, eccome! Una delle mie sorelle aveva diritto a usare lo staio perché era la più svelta e con lo staio rendeva di più. Un’altra doveva usare la quara, perché in bravura veniva subito dopo la prima e anche la quara era un attrezzo valido quasi quanto lo staio. La terza in bravura aveva diritto a prendersi la falce, che in quel caso doveva essere usata per costolo, e così via fino a me che ero il più piccino e il solito biscaro buono a nulla, quindi potevo benissimo accontentarmi di un cavicchio qualunque. Poi veniva l’assegnazione dei posti ed era sempre lui, chiamandoci con i nostri nomignoli, a dirci: “Te, Segalina, mettiti là con lo staio e con questa seggiola che ha l’altezza giusta; te, Bazza mettiti qua con la quara e la panchetta che ci si munge; te Trasando prendi questo, te prendi quello... e te Poldo prendi la panchetta che ci si lava i panni, così ti ci metti a cavalcioni e con quell’aggeggio lì puoi scavicchia’ quanto ti pare; ma sta attento a non farti del male alle dita”. Poi veniva la lezione: “Ve lo riordate come si fa a sgranà?” Le sorelle più grandi rispondevano di sì e lui si rivolgeva subito a chi non aveva risposto per insegnare come si doveva impugnare la pannocchia, come si doveva appoggiare alla barra dello staio, della quara o alle altre stecche improvvisate per poi girarla con forza per staccare i chicchi dal “cornocchio”. A me diceva semplicemente: “Te, biscarella, fa’ come ti pare”.
     Al termine di quella cerimonia esplodeva un cinguettio di chiacchiere come fanno i passerotti che si ritrovano in gruppo a primavera per godersi il tepore del primo sole e si procedeva così, a ritmo sostenuto, per circa un’oretta. Poi, a poco a poco, col calare della sera, il ritmo rallentava e il cinguettio si faceva sempre più fioco fino a raggiungere qualche pausa di silenzio che spesso coincideva col sopraggiungere di quella luce smorzata del crepuscolo, che avanza velocemente verso il primo buio. A questo punto uno di noi chiedeva: Papà, un ci si vede quasi più, si può accendere la luce? Oggi questa richiesta sembra banale, ma a quei tempi , cioè nel 1929, avere in casa la luce elettrica era un lusso che solo pochi come mio padre potevano permettersi e passare di colpo dalla fioca luce di una candela a quella di una lampadina elettrica che aveva la potenza di ben venticinque e a volte addirittura di cinquanta candele, non era una bazzecola. All’immancabile “Sì” di mio padre, con un semplice giro di chiavetta, eccoti esplodere nella stanza una luce da venticinque candele che un piatto in maiolica smaltato di bianco e sistemato al di sopra della lampadina, faceva rimbalzare in basso lasciando il soffitto nella penombra. Che bellezza! E veniva spontanea l’esclamazione di meraviglia da parte di tutti: Oooh! La luminosità era esaltata dal colore del granturco, che già in notevole quantità si trovava disseminato ovunque e avvolgeva tutti noi in un’atmosfera arancione dorata, mai vista prima di allora. Come per miracolo il cinguettio riprendeva più vivace di prima ma era inevitabile che di lì a poco si cadesse di nuovo in momenti di silenzio.

La novella americana.
     Però non più di qualche istante, perché subito una delle mie sorelle maggiori incalzava: “Forza papà, raccontateci una delle vostre novelle americane”. Al che mio padre scattava: “Novelle?....ma che dici o biscarina. Le novelle ‘en quelle che ti racconta tu ma’ sulla Befana. Le mi’ novelle en’ fatti veri! E’ come quella volta che traboccò il “levee” in Oakland! M’affogò venti cavalli, altro che novelle!” E qui cominciava a raccontare una sfilza di fatti che gli erano accaduti in America e s’infervorava tanto e li sapeva tanto ben colorare, che per noi erano molto più fantasiosi delle novelle vere.
     Restavamo incantati ad ascoltarlo sgranando granturco, finché la mamma ci chiamava per la cena. Ogni volta che apriva bocca scaturiva un avvenimento nuovo, sempre narrato con enfasi, fantasia e tanto amore da farlo apparire fresco come se fosse accaduto ieri.

La quara e lo staio

Nella nostra società industrializzata di fine secolo, questi oggetti hanno perduto la loro funzione e sono giustamente finiti in soffitta o, i più fortunati, in museo.
Non dobbiamo però dimenticare che per secoli hanno occupato un ruolo importante come unità di misura per cereali. Tre quare formano uno staio e tre stai un sacco.
Un sacco di granturco pesa kg 56 circa.
Per le mie sorelle erano anche attrezzi con i quali riuscivano a sgranare diversi quintali di granturco

La falce e la cote

Nelle vetrinette dei musei dell’antica civiltà ellenica o romana, s’incontrano spesso preziosi vasetti in vetro dove venivano conservate le lacrime di propri cari o di persone importanti. Pensate ai lacrimatoi di Poppea e di Nerone. Girando per quei musei un po’ ovunque, non mi è mai capitato di trovare un vasetto che fosse servito a conservare il sudore dei propri antenati. Non siamo stati educati a questo tipo di rispetto ed è più facile incontrare gente che ha sperperato il patrimonio messo insieme dai suoi con tanto sudore.
Io ho voluto provare a mettere in un quadro, come fosse la vetrinetta di un museo, uno dei tanti oggetti che può simboleggiare il sudore dei miei genitori: una falce e la cote.
Già, ma che cos’è la cote?…Giacomo Puccini lo sapeva e nella “Turandot” gli dedicò un bellissimo coro, ma oggi non si sa più e a me è capitato che una giovane insegnante seduta vicina a me in tatro, quando sentì quella meraviglia di coro, mi chiese sommessamente: “Signor Stagi, lei lo sa cos’è la cote?” È la “pietra”, risposi, la pietra per affilare.
Guardate come sono consumati questi attrezzi! La cote sembra l’elica di un aeroplano. Quanto sudore ci sarà voluto per ridurli così?!…
Noi usavamo la costola della falce per sgranare il granturco!

È importante leggere le avvertenze (come per una medicina amara).

“…devono prendere imbarco su un piroscafo di vettore di emigranti…”

     Questi racconti ci lasciavano in ansia e creavano in noi aspettative sempre crescenti poichè ci lanciavano alla scoperta di un mondo lontano, sconosciuto e per noi fantasioso quanto affascinante.
     Mettendo insieme tutte queste “novelle americane” si viene a costruire il racconto di fatti veramente vissuti e ci si accorge come mio padre, forse senza nemmeno rendersene conto, svelava i sacrifici certamente suoi ma comuni anche a chissà quanti altri emigranti.
     Io riporto qui di seguito questo racconto così come me lo ricordo, senza fronzoli, cioè denudandolo di tutti gli abbellimenti che ci faceva lui, di tutte le nostre esclamazioni e delle nostre richieste di conferma nei casi di incredulità. Questo anche perché non sarei capace di ricordare gli infiniti abbellimenti che apparivano come un raffinato ricamo su di un oggetto già bello di per sé come, ad esempio, sull’abito da sposa. Comunque, anche cosi denudato, lo ritengo ugualmente valido e commovente. Quel racconto comincia così: “O papà, quanti anni avevate quando emigraste in America?”
     Avevo 16 anni quando nel 1898 mi resi conto che in Italia non era possibile trovare un lavoro adatto a me e decisi di emigrare in America seguendo l’esempio di altri miei paesani che erano partiti qualche anno prima e dei quali però si avevano scarse notizie. I soldi per il viaggio me li trovò mio padre dietro la promessa che al più presto glieli avrei mandati perché potesse restituire il prestito. Il giorno stabilito per la partenza da casa era di Lunedì e il Sabato precedente, mentre eravamo a cena, i miei genitori mi dissero in presenza degli altri due fratelli: “Da domani l’altro te ne dovrai andare libero per il mondo a guadagnarti il pane, ed allora riteniamo giusto darti già da domani il permesso di andare dove ti pare.”
     Il giorno successivo era una Domenica di Carnevale (del 1898) e, dopo essere stato al Vespro, mi sentii autorizzato ad andarmene da solo, cioè senza l’accompagnamento nemmeno dei miei fratelli, nel vicino paese di Meati a vedere il “Bruscello”. Era la prima volta che assaporavo la libertà totale ed ero ben consapevole che questo grande privilegio mi era stato concesso con molto anticipo rispetto alle usanze.

     Seguivo la scena del Bruscello ma al tempo stesso mi sentivo autorizzato anche a rivolgere lo sguardo dove mi pareva e fu così che i miei occhi s’imbatterono nei capelli e nel volto di una fanciulla che per la sua semplicità e la sua bellezza, si differenziava da tutte le altre. Anche lei seguiva il Bruscello ed era in piedi dalla parte opposta alla mia così io potevo soffermarmi ogni tanto ad ammirarla poiché la sua immagine si collocava all’altezza dei piedi degli attori che recitavano sul palco: un piccolo piano ti tavole sistemato in mezzo alla corte. Terminato lo spettacolo tentai di avvicinarmi a lei ma non mi fu possibile poiché, come si usava a quei tempi, era severamente scortata dai genitori e non riuscii nemmeno ad incrociare con lei lo sguardo per capire se anche lei mi aveva notato. Andò a finire così la prima grande libertà che mi avevano concesso i miei genitori! Fortemente deluso mi ritirai in casa, chiuso nel mio dolore finché, dopo cena, i miei familiari mi convinsero ad andare alla Bettola lì vicina per salutare gli amici. Accorsero anche i vicini di casa e tutti mi fecero gran festa ma ad un certo momento fui colto dall’emozione e cominciai a singhiozzare forte. Non volli farmi vedere da nessuno in quelle condizioni e sgattaiolando via per una porticina secondaria, andai di nuovo a rifugiarmi in camera mia.

La traversata dell’Oceano
     Il Lunedì mattina, molto presto, mia madre mi mostrò tutto l’occorrente par il viaggio: poche cose raccolte nel fazzoletto da fagotti come si usava a quei tempi, compreso una cartata di polpette che la sera prima aveva preparato apposta per me.
     Il treno l’avevo visto tante volte, ma non c’ero mai salito e la prima cosa che osservai fu che standoci sopra non è rumoroso come quando si sente passare da vicino.
     Il viaggio in mare fu una vera avventura e una mezza tragedia. Già quando il bastimento staccò dal molo di Genova fu per me come strapparmi dalle viscere di mia madre e pensai: Cara mamma, quando nacqui il dolore dello strappo per la nostra separazione lo sentisti solo te, ma ora siamo in due a sentirlo. Non avrei mai pensato di volerti tanto bene. Di tutte le persone che ho incontrato nella vita, in questo momento non ricordo più nessuno e penso solo a te. Vedo solo il tuo volto e il cuore mi si gonfia tanto che mi comprime i polmoni e non riesco a respirare.
     Mamma, soffoco per te, ma non sono mai stato tanto felice perché senza questa prova non avrei mai saputo di volerti tanto bene. Solo tu, mamma, mi sei compagna in questa avventura.
     In men che non si dica, Genova scomparve. Poi, per qualche giorno, ogni tanto s’intravedeva laggiù in fondo un tratto di costa, prima dell’Italia, poi della Spagna, Gibilterra e poi si finì col vedere solo mare e cielo. Per giorni e giorni, sperso in mezzo all’Oceano, il piccolo bastimento che io chiamavo “affogagatti” saliva in cresta a onde di venti metri per poi calare a picco nella parte bassa. Questo continuo fluttuare era per noi l’inferno e nessuno riusciva a mangiare o a trattenere nello stomaco un po’ di cibo. Per molti giorni le polpette di mia madre furono l’unico mio alimento e ricordo che le assaporavo briciolina dopo briciolina senza mai poterne mangiare una intera per timore di doverla rigettare. Il mal di mare è tremendo, specialmente quando ti paralizza per quasi un mese.
     Finalmente nell’affogagatti risuonò un sussulto di gioia: New York, New York! Siamo arrivati a New York! Ci abbracciammo come fossimo un’unica famiglia sopravvissuta ad una grande catastrofe. Finalmente salvi, tutti salvi e ognuno prese a raccontare i suoi progetti con energia.
     Il mal di mare era scomparso e dimenticato, come si dimentica la peste che ha travolto i nostri antenati dei secoli scorsi. La speranza riaccese la gioia sui nostri volti e l’affogagatti tornò ad essere un bastimento rispettabile. Ora scivolava via liscio e tranquillo nella Baia di Hudson. Di nuovo si sentirono ovunque grida di gioia: “Eccola, eccola, guardate laggiù....è la statua della Libertà.... Com’è alta!.... Com’è bella!....” Qualcuno disse: “Se non fosse bella come potrebbe rappresentare la libertà?” Tutti eravamo intimamente convinti di essere approdati finalmente nel paese della “Libertà”.

Il Paese della Libertà
     Terminate le manovre di attracco, ognuno prese il proprio fagottino che, come il mio, era ormai alleggerito della scorta dei viveri, e si avviò raggiante di gioia a metter piede nel paese della Libertà. Eravamo tutti emozionati e nessuno di noi riuscì a capire, a prima vista, a cosa servivano quegli steccati in legno messi lì a bella posta per delineare un percorso obbligato come si fa per gli animali. Istintivamente, alle persone che si trovavano nelle prime file della colonna, venne fatto di deviare per scansare quel percorso, ma alcuni uomini in divisa agitando dei ganci strani, fecero cenno che era gioco forza imboccare il passaggio transennato che era stato eretto per far affluire tutti gli emigranti in una baracca disadorna e corredata solo di lunghe panche a mo’ di sedile.
     Qualcuno ci additò pronunciando una parola strana che nessuno di noi conosceva, poi altri si fecero coraggio e tradussero. Allora un brivido freddo ci percorse lungo la schiena e quella parola venne bisbigliata sempre più marcatamente in italiano: “Quarantena....quarantena!
     Tutti noi emigranti venimmo fatti salire su di un vaporetto e accompagnati all’isola di Ellis o della “Quarantena”, proprio sotto la statua della Libertà e lì fummo informati che dovevamo restare quaranta giorni in isolamento per evitare di trasmettere agli americani malattie contagiose di cui fossimo eventualmente affetti. Non ci sottoposero a nessuna visita medica e non ci offersero nessuna assistenza ospedaliera: praticarono solo l’isolamento a carattere cautelativo. Non ci trattavano male anzi, ci davano anche un po’ da mangiare, ma nessuno poteva sollevarci dall’umiliazione di trovarci imprigionati e ammassati come animali in un serraglio e in un ambiente tanto squallido, proprio nel paese della Libertà e sotto la statua della Libertà!
     Fortunatamente le lancette dell’orologio girano con la stessa velocità sia per il Re che per gli schiavi e così questi quaranta giorni, pesanti come il piombo, passarono anche per noi. A dire il vero, qualche volta ci capitava di dimenticare la data e non sempre ci si trovava d’accordo nel calcolare esattamente il tanto sospirato giorno.

Finalmente nell’affogagatti risuonò un sussulto: New York, New York!

…guardate laggiù… è la statua della Libertà… Com’è alta!… Com’è bella!

Terminate le manovre d’attracco, ognuno prese il proprio fagottino…

…e accompagnati all’isola di Ellis o della “Quarantena”, proprio sotto la statua della Libertà.

     Finalmente esplodemmo ancora in un nuovo sussulto di gioia: “Domani! Domani!” Quasi tutti passammo in bianco l’ultima notte della nostra quarantena sotto la statua della Libertà e quando il sole di quel famoso giorno apparve dal fondo della Baia, trovò tutti noi puntualmente schierati fuori della baracca a festeggiarlo. Ancora poche ore e poi...finalmente la libertà, ma quella vera, quella che ti viene offerta da un paese libero, che ne conosce tutto il valore e quindi sa che libertà significa anche libertà dalla miseria. E’ per questo che con la libertà ti offre anche un lavoro attraverso il quale tu troverai la tua dignità di uomo e non sarai più costretto a dire come quando eri al paesello: “Io non sono nulla perché non ho un lavoro”. Fra poche ore dimenticherò i sacrifici del mare e della quarantena e dopo un’altra galoppata di una quindicina di giorni in treno per attraversare gli Stati Uniti, sarò finalmente in California, a San Francisco, dove mi aspetta un lavoro sicuro, già prenotato per me.
     Mentre rimuginavo nella testa questi pensieri, si aperse finalmente il cancello principale ma, l’addetto alla sorveglianza anziché far uscire qualcuno di noi fece entrare un energumeno che ispirava poca simpatia. I più grandi fiutarono l’aria e si resero subito conto che era un tipaccio e che sarebbero stati guai per tutti. Parlava un italiano stentato e quando gesticolava, sembrava che minacciasse pugni per tutti. Il sorvegliante ce lo presentò dicendo: “E’ autorizzato a parlare personalmente con ognuno di voi” Il che, in parole più chiare, significava che ognuno di noi per uscire di lì doveva vedersela con lui. Cominciò a parlare con quelli che avevano più fretta e tutti uscivano da lui umiliati e sconsolati. Finalmente uno dei primi che aveva parlato con lui ci spiegò che per farci uscire di lì, l’energumeno voleva soldi. Se uno aveva già in mano la promessa di un posto di lavoro da parte di una Ditta americana, lui esigeva una cifra salata per portarlo col vaporetto alla stazione e se uno non aveva una promessa di lavoro, doveva accettarla per forza da lui e in quel caso la cifra da sborsare era doppiamente salata.
     Quando toccò a me mi chiese: - “Hai un’offerta di lavoro?” Sì, risposi, a San Francisco.
     E lui: - “Hai soldi?” - Assalito dalla paura che mi prendesse tutto il malloppo, che già era diventato assai smilzo, risposi: - No, perché il viaggio me lo hanno pagato dall’Italia con un prestito che dovrò restituire con i primi guadagni che farò a San Francisco.
     Lui replicò seccamente: - “Tu allora dovrai restare qui a New York per guadagnare i soldi che mi devi lavorando come lavapiatti in un ristorante dove ti porterò io. Quando mi avrai pagato, potrai andare dove vorrai”.
     Mi portò davvero in un ristorante a Broccolino (Brooklyn), nei bassifondi della città, dove ogni giorno passava a controllare se c’ero ancora. Non mi disse quanto tempo avrei dovuto restare lì a lavorare per lui ma certamente tanti giorni e così decisi che la mia occupazione principale non doveva essere quella di lavare i piatti, da cui non potevo certo sottrarmi, ma di studiare il modo di scappare. Non mi fu facile capire dove mi trovavo e dove era la stazione del treno per San Francisco ma, con l’aiuto di un compagno di sventura che si trovava lì da qualche mese, riuscii a conoscere anche l’orario di partenza del treno e poi, dopo aver calcolato il tempo giusto per raggiungere la stazione, sgattaiolai inosservato dal ristorante e poi sfrecciai a gambe levate per un paio di chilometri verso il treno che raggiunsi con la lingua fuori come un levriero, pochi minuti prima che partisse. Tutto doveva essere calcolato in modo esatto perché si accorgessero della mia fuga soltanto dopo la partenza del treno e ci riuscii!

Il viaggio in treno verso il Far West
     Delle musiche belle ne avevo già sentite, perché l’organo di Fagnano è antico e quando ero ragazzo io lo suonava un bravissimo organista, Don Paolo Simoni, ma il fischio di quel treno che partiva per San Francisco era per me una musica insuperabile. Mi commossi e scoppiai a piangere.
     Al pianto sopraggiunse inavvertitamente il sonno e non so dire né quanto piansi né quanto dormii. Direi che dormii tanto perché quando mi svegliai, vedendo il Sole basso all’orizzonte credevo che fosse il tramonto ed invece era l’alba! Finalmente l’alba di un nuovo giorno e l’alba di una nuova vita! Avrei dovuto traboccare di gioia nel ritrovarmi finalmente libero ma non so per quale motivo non riuscivo a gustare la piena felicità di quell’istante. Forse m’intristiva l’andare monotono del treno, o forse era per l’ultima umiliazione subita che mi sentivo più un fuggiasco che un uomo finalmente libero.

Mi portò davvero in un ristorante a Broccolino…

Foto di una delle più antiche costruzioni (in legno) che sopravvivono nel malfamato quartiere di Brooklyn a New York.

     Scrutai con sguardo attento i miei compagni di viaggio ma non ravvisai né volti né persone che m’incoraggiassero a proferire parola. Non capivo la loro lingua e non riuscivo a capire chi fossero né da dove potevano provenire. Certamente era gente povera come me e forse andava in capo al mondo come me, alla ricerca di un lavoro.
     Mi raggomitolai di nuovo nel mio cantuccio e mi chiusi gli occhi con le mani per cercare conforto nei volti e persone dei miei ricordi, quando inaspettatamente mi comparve lei: la fanciulla del Bruscello! L’immagine era un ritratto a mezzo busto come l’avevo vista di là dal palco a Meati ma nitida come dal vero. Non conoscevo la sua voce, non l’avevo mai sentita, ma in quell’istante la udii sussurrarmi dolcemente all’orecchio: “Coraggio, sei un bel giovanotto!”

     Fu un solo istante ma questo ricordo mi scosse bruscamente perché era la prima volta che mi capitava un fatto del genere: era segno che non l’avevo dimenticata, e forse anche lei mi aveva notato ed ora anche lei certamente mi pensava. Mi alzai di scatto e mi misi a passeggiare nel poco spazio che ci riservava la carrozza ferroviaria. Ancora volti nuovi, sconosciuti e insignificanti, quindi non mi restò che soffermarmi a guardare il paesaggio. Com’era diverso da quello al quale ero abituato! Fino a qui non ci avevo posto attenzione ma mi ero reso conto ugualmente che il paesaggio americano è di una monotonia spaventosa. Subito dopo New York vengono immense praterie, immense distese tutte uguali, senza laghi e senza montagne! Cambia solo la tonalità del verde che è più intenso nelle zone coltivate e meno intenso o tendente al giallo nelle zone di pascolo o addirittura abbandonate. Si camminava giorni e giorni senza incontrare un centro abitato, una casa o in qualche modo segni di vita. Il treno si fermava raramente perché il deposito di carbone gli era sufficiente per diversi giorni e per approvvigionarsi di acqua il macchinista allungava un tubo come la proboscide di un elefante e, senza rallentare, la pescava in fossi dislocati a bella posta lungo il binario per chilometri e chilometri.
     Dopo cinque o sei giorni di cammino il treno si fermò nelle vicinanze di un fiume e dopo un po’ venne un incaricato a borbottare un discorso lungo ma io non capii nulla. Tutti scendevano e anch’io scesi ma non sapevo il perché. Finalmente trovai un uomo che parlava italiano e mi spiegò che era crollato il ponte sul fiume, quindi si doveva attendere lì per qualche giorno in attesa che finissero di ricostruirlo. Disse poi che nei giorni di sosta la Compagnia delle ferrovie avrebbe passato il cibo ma dietro pagamento poiché nel prezzo del biglietto non erano compresi gli imprevisti. Infine disse che le Autorità locali raccomandavano di non allontanarsi dal treno e che loro garantivano l’incolumità delle singole persone soltanto restando sul treno.
     E’ facile immaginare come il mio stato d’animo piombò di nuovo a zero. Ora il problema non era solo quello di capire in che misura tutti questi ritardi avrebbero influito sulla mia offerta di lavoro. Mi preoccupavo anche per il motivo che tali imprevisti mi avevano tagliato fuori dal mondo e da quando ero partito da casa, nessuno sapeva più nulla di me. Il pensiero più assillante però era che mi cominciavano a scarseggiare i soldi! L’unico risparmio che potevo fare era quello di non comprare cibo. Già da un po’ mi limitavo a comprare solo il pane; mai mi permettevo il lusso di un po’ di companatico o di una bibita. Inoltre bevevo solo quello che mi passavano e se mi capitava una fontana, facevo il pieno come un cammello. Ma ora?....
     Dopo qualche giorno di attesa mi feci coraggio e accodandomi a un gruppetto di gente del treno, andai anch’io a controllare a che punto era la ricostruzione del ponte. Mamma mia! Pensavo che fosse in muratura come quelli del nostro fiume Serchio che avevo visto a Nave e a Monte S. Quirico, ma qui invece niente pietra. Era in legno! Tutto costruito in legno affastellando quattro a quattro enormi tronchi di pino per la parte sottostante il livello dell’acqua e tronchi di abete per la parte superiore.

Continued to page 3

or return to Agostino STAGI main page